Come prepararsi all’omelia: “il corpo”

Sesto appuntamento con "IL MANUALE DEL PREDICATORE" (Tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli) scritto da don Mario Masina, oggi vi proponiamo: "L’omelia vista dall’esterno, il corpo".


2. IL CORPO
Oltre alla voce e a ciò che ne riguarda, il secondo biglietto da visita del predicatore  riguarda alcuni aspetti particolari del corpo. Anche questi possono risultare decisivi. Perché la gente non solo ti ascolta, ma ha anche un paio di occhi per guardarti.  A meno che, dopo i primi due minuti, tu non sia già riuscito a farglieli chiudere.
 
L’espressione del volto.
Può essere un aiuto inestimabile per rendere interessante l’intervento. È ben vero che in alcune chiese, lunghe quaranta metri, i fedeli dell’ultimo banco potrebbero avere qualche difficoltà a distinguere la tua faccia da una maschera di carnevale. Nella norma, però, le cose vanno diversamente. Ti vedono e ti osservano. E la prima impressione la comunichi con il volto. Un volto rilassato e sereno predispone positivamente. Una faccia dura, arcigna o corrucciata, tipo cane da guardia, ingenera freddezza e distanza. «Che devo farci se ho una faccia così? Mica la posso cambiare», penserà qualcuno. Evidente! Cambiare del tutto no. C’è comunque sempre spazio per lavorare su determinate espressioni. Una di queste è sicuramente il sorriso. Ho visto preti iniziare a incutere terrore già dalla prima lettura: subito con i lettori che non erano pronti, poi con i chierichetti che portano male i candelieri e sbagliano a girare l’angolo, per finire con il sacrestano che ha lasciato spegnere il fuoco del turibolo. Un clima da anni di piombo. Ma per carità! La gente intuisce e respira i messaggi non verbali che diamo. Vuoi mettere un prete col sorriso sulle labbra? Che non perde il proprio fair play e guida la celebrazione in modo rassicurante e distensivo. Lo si ascolta molto più volentieri, non c’è dubbio. Non si tratta di produrre artificialmente un sorriso da un orecchio all’altro, come qualcuno dei nostri insigni politici. Semplicemente di essere meno tenebrosi e oscuri.
Il contatto con gli occhi.
Stabilire un contatto con il proprio pubblico per mezzo degli occhi è molto importante. Troppo importante per essere trascurato. Se non si guarda in faccia la gente non si comunica. Ricordo che, da ragazzi, avevamo etichettato un prete, chiamandolo «occhio alla trave». Guardava sempre il soffitto quando parlava in pubblico. Oppure l’altro che non si staccava nemmeno un secondo da quei benedetti fogli che teneva davanti. Per alcuni gli occhi servono a solo scrutare i ritardatari, in modo da redarguirli finita la messa. Per altri a mandare occhiate minacciose Il buon predicatore al contrario, prima ancora di iniziare a parlare, con lo sguardo ha già creato un rapporto con i fedeli. Egli da l’impressione di guardare tutti e ciascuno, anche se non fissa una sola persona con fare inquietante. Guarda i vicini e i lontani. Ma non passa al setaccio la chiesa in ordine consecutivo, quasi a voler fare il contrappello. Il contatto con gli occhi ti consente ti avere in pugno la situazione, intuire le piccole reazioni di chi ti ascolta, e capire che li stai perdendo quando cominciano a guardare troppo spesso l’orologio. I fedeli avvertono che ti interessi di loro, in modo discreto ma reale, e perciò sono disposti a prestare più attenzione a uno che li considera, che non a uno che li ignora completamente.
Capita talvolta che la gente prende posto in chiesa in maniera diseguale, occupando la navata laterale e lasciando mezza vuota quella centrale. In casi come questi non è possibile ignorare che metà dell’assemblea è alla tua sinistra, non è possibile continuare a guardare sempre e solo diritto. Senza girare in continuazione la testa, con il pericolo che ti si sviti il collo, in qualche passaggio dell’omelia ricorda di guardare in faccia anche la gente che ti sta di lato. Creare contatto con gli occhi è un aspetto spesso sottovalutato, ritenuto secondario o addirittura irrilevante. Non è assolutamente vero. È un punto strategico. Il bravo predicatore lo sa e si attrezza di conseguenza, prestandovi la dovuta attenzione.
Il linguaggio dei gesti.
Per certi versi, parlare in pubblico, fare un’omelia è come recitare. La gente comincia a giudicarti in base a ciò che vede, prima ancora di valutare quello che sente. È innegabile che oggi siamo attenti e sensibili più a ciò che si vede che a ciò che si ascolta. Dopotutto siamo un po’ figli della TV. Molti di noi incollano le mani sul leggio e non le staccano fino alla fine, altri non sanno precisamente dove metterle e le lasciano penzolare. Così facendo si ignora l’abitudine quotidiana di parlare con i gesti e si perde uno dei mezzi migliori per catalizzare l’attenzione. I gesti della mano servono a sottolineare e rimarcare determinati aspetti di quello che si va dicendo. Questo non equivale ad accompagnare ogni idea con un gesto: diventerebbe ripetitivo e perderebbe d’efficacia. Usa le mani e le braccia per accentuare i punti importanti: ma soprattutto fallo in modo naturale. Chi studia queste cose, ci dice che il gesto non deve mai superare l’altezza degli occhi, proprio per non diventare plateale o minaccioso. Il palmo
della mano va tenuto preferibilmente aperto, mentre l’indice puntato va assolutamente evitato. Può disturbare.

La posizione (o postura) del corpo gioca un ruolo significativo.
Non si tratta di rimanere diritti e impalati come una statua, ma nemmeno di continuare a ciondolare ora su una gamba ora sull’altra, ora in avanti, ora all’indietro. Faresti venire il mar di mare ai più vicini. I movimenti catturano l’attenzione, ma possono anche sviarla. Soprattutto non sdraiarti sopra l’ambone e non appoggiare i gomiti: più che un’aria confidenziale ti darebbe un’aria sbracata.

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