45ª GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale

Domenica 5 giugno 2011 

XLV giornata mondiale delle Comunicaizoni Sociali.

La foto riproduce il manifesto dell’evento e raffigura  un gruppo di giovani sorridenti, incamminati insieme verso una stessa meta, e sotto la manina ormai a tutti familiare che “clicca” su “Parteciperò”, proprio come avviene nei social network quando si vuole esprimere la propria intenzione di esser parte di un evento che ci sta a cuore.

Dal folder allegato estrapoliamo quanto scritto da Mons. Domenico Pompili

L’AUTENTICITÀ IN TRE MOSSE

Papa Benedetto opera quest’anno una triangolazione interessante: verità annuncio e autenticità. Vien da chiedersi: rispetto alla verità da annunciare quale deve essere l’autenticità richiesta? Anzitutto e’ necessario un esercizio di ‘buona passività’, cioè di apertura a quanto fuori dal nostro ‘io’ ci viene fatto scoprire. La verità esige un capovolgimento per cui dal nostro punto di vista ci misuriamo con la realtà. Vorrei valorizzare quanto su questo tema suggerisce un altro Benedetto, il fondatore del monachesimo occidentale, che nella sua celebre Regola al capitolo VII, descrive l’umiltà, attraverso la sequenza di 11 gradini. Gli ultimi tre, a ben guardare, delineano una comunicazione autentica. Il messaggio di fondo è che ogni parola interumana ha come terreno fecondo di origine il silenzio, che include bocca, cuore e sensi, qualificato dall’apertura alla Parola. Il fondamento solido è e resta per tutti i gradini quella parola originaria che ne costituisce l’incipit e cioè: ”Ausculta!”. La parola del monaco e oggi del comunicatore cristiano, non può non riconoscersi se non in un orizzonte di silenzio.  Ecco dunque il testo dei tre gradini:  “Il nono gradino dell’umiltà è quando il monaco tiene a freno la lingua e coltiva l’amore per il silenzio, non parlando se non interrogato.  La Scrittura insegna infatti che: chi fa molte  chiacchiere entra nel peccato, e che: l’uomo dalle troppe parole cammina sulla terra privo di orientamento. Il decimo gradino dell’umiltà è non ridere per qualunque sciocchezza, perché sta scritto: l’uomo maleducato ride in modo sguaiato.  L’undecimo gradino dell’umiltà è quello in cui  il monaco, quando parla, lo fa sottovoce, senza ridere, umilmente e con gravità, con brevi e assennate parole, senza alzare la voce, come sta scritto: il saggio si riconosce dalla poche parole”. Il nono gradino afferma il primato del silenzio rispetto alla parola e dunque il valore dell’ascolto.   Per essere persone in ascolto occorre parlare solo quando si viene interpellati e cioè non a partire da se stessi. Occorre zittire le voci dell’io e dare spazio alle voci che risuonano fuori di noi. “La Parola zittì chiacchiere mie” (C. Rebora).
Il decimo gradino non intende tanto bandire il riso, come nella caricatura volgarizzata da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, ma di renderlo vigilante su quella ironia che svuota la parola del suo senso vero, che è quello di comunicare. Prendere in ridere instaura una rapporto falsato, ambiguo, inconcludente e vano e induce a non prendere sul serio l’interlocutore. È una comunicazione che Kierkegaard definirebbe dell’uomo ‘estetico’ e che non vuole compromettersi mai, perché mai si decide a coinvolgersi, cioè a mettersi in gioco. L’undecimo gradino esplicita il lato positivo della parola e cioè il ‘come’.  L’insistenza è ancora sul silenzio (leniter, non sit clamosus in voce, humiliter), ma si ritorna sul tratto della voce, la cui forza sta nell’essere eco di altro e nel proporsi pacata e vicina alla persuasione più che all’invadenza (cum gravitate).   Ciò che si vuole è un discorso che abbia la profondità delle questioni sollevate più che l’insostenibile leggerezza delle parole e che si distingua per un tono che eviti la violenza verbale e la sottomissione dell’interlocutore.   L’altro elemento significativo è l’introduzione di quell’elemento razionale per cui il discorso del monaco deve essere fatto “con brevi (pauca) ed assennate (rationabilia) parole”. Non solo ‘parole sante’ dunque, come ci si aspetterebbe, ma parole razionali, cioè comprensibili, ricche di una ‘ratio’ che sono il frutto di un esercizio della mente, non ripetitive e approssimative. L’ennesima conferma che il parlare non nasce dalle pretese dell’io, ma dall’apertura alla verità.

GMCS-2011 folder

Manifesto GMCS2011



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