Se i tifosi sgonfiassero il pallone

Anticipiamo il “Primopiano” del n. 36 di Famiglia Cristiana, in edicola oggi  31 agosto. Oltre alla casta dei politici, ci sono i calciatori restii a dare il proprio contributo al Paese.

Forse sarà anche vero. Il contributo di solidarietà, che i calciatori non vogliono pagare, non c’entra nulla. Forse, ci sono più nobili ragioni dietro il più folle degli scioperi. Questioni di contratto collettivo e tutele per chi non è Totti, né mai sarà Platini. Siamo, però, all’assurdo. Il più “povero” dei calciatori (spesso senza neanche giocare) guadagna più di un alto dirigente di industria. Lo sciopero di questi lavoratori del Paese di bengodi e la bolla finanziaria dei padroni del calcio (presidenti di club, procuratori…) conferma che, oltre alla “casta” dei politici, ce n’è un’altra. È quella intoccabile del calcio, che vive su un altro pianeta. E nulla gli importa dei gravi problemi del Paese.

È un mondo che ha proprie leggi e regole, diverse da tutti. E non concepisce che si possa mettere una tassa ai “lavoratori in mutande” che tirano calci al pallone. Di fronte a un incombente “pericolo”, anche le società sono corse in loro soccorso, offrendo un fondo di venti milioni di euro. Proposta bocciata, ma idea scandalosa. Le tasse sono troppo alte? Per i calciatori si inventano contratti al netto. Cioè, compensi indipendenti dall’incidenza fiscale e contributiva. Un privilegio immorale. Alla faccia della pretesa uguaglianza con tutti gli altri lavoratori!

Guai, poi, a parlare di tassa di solidarietà. Nessun onere può gravare su questi privilegiati. Già, poverini, si “spremono” per accendere le nostre passioni calcistiche, sudando la domenica sui campi sportivi. C’è troppa comprensione per il grande circo del calcio. E anche facili assoluzioni. Sempre. Anche quando girano cifre da capogiro per comprare centravanti e attaccanti per “bucare” la rete. E per pagare stipendi da nababbi. Un’offesa per chi, ogni giorno, tira la cinghia. Una dolorosa “pedata” al Paese reale, quello che lavora e si sacrifica davvero.

Ma il senso di nausea, sempre evocato per le tante calciopoli a ripetizione, non ha portato nessun cambiamento. Il pallone è ancora “gonfio”. Su un piedistallo dorato, come una divinità cui si sacrifica tutto. A cominciare dal buonsenso. Forse, sarebbe opportuno che lo sciopero, anzi la serrata, la facessero i tifosi. Davvero. Quelli che, con i loro sacrifici, tengono in piedi il mondo del “pallone”. Spalti vuoti allo stadio e niente partite in tivù. E non per una domenica, ma per un anno intero. Come hanno fatto in America per la Nba, basket stellare e troppo inquinato. Chi non vuole pagare le tasse e chi propone e sottoscrive contratti al netto non è degno di alimentare la passione per il gioco più bello del mondo.

Per il resto si discuta. Ma senza privilegi, neppure sindacali. Altrimenti, rischiamo che l’articolo 18 resti solo per i calciatori e sia carta straccia per i veri lavoratori. C’è, infine, un problema generale nell’Italia che scivola nella crisi: il lavoro, le risorse e le regole che lo riguardano. Non serve scioperare per sottolinearlo. Vale per tutti. Gli sconquassi del capitalismo e, al tempo stesso, le ricette sbagliate per far fronte alla crisi non si possono esaurire con la protesta di un giorno. Come quella della Cgil. Comprensibile nelle motivazioni, inaccettabile per i tempi. Rischia d’essere solo un piccolo fastidio e nulla più per chi ruba la vita e la passione a questo Paese. Dentro e fuori gli stadi. Per il suo futuro, l’Italia ha bisogno di un grande progetto. Al netto di furbizie, egoismi e interessi di parte.

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